“Oggi arrivo con la mia solita paralisi, le mie abituali indecisioni”, dice Marco come se volesse consegnarmele quelle indecisioni, in modo che io le aggiusti. Non so perché ma nonostante le sue parole io ho la sensazione che oggi stia per accadere qualcosa di nuovo… Io e Marco usciamo di recente da un lungo lavoro di recupero della responsabilità del suo benessere, volto ad uscire dalla passività e dalla delega del suo star bene a qualcuno fuori di sè, me compresa. Un lavoro che ci ha condotti in zone d’ombra della nostra relazione terapeutica. Ad un certo punto io ho sentito di dover lasciare andare sullo sfondo una modalità più materna che era stata molto utile in tutta la prima parte del percorso. Aveva facilitato il riaffiorare di tematiche ed emozioni piuttosto antiche legate al primissimo periodo della sua infanzia favorendo lo scioglimento di alcuni nodi nevralgici. Nel tempo ho sentito istintivamente necessario assumere una posizione più paterna. Il padre è colui che tende la mano al figlio e ne favorisce lo svincolo dalla simbiosi e dal coinvolgimento con il materno, ne sostiene la crescita e la ricerca verso l’autonomia, lo accompagna nel mondo. Quando nella storia di un bambino c’è una madre fagocitante e un padre assente il rischio è di rimanere intrappolati in quel soffocante eccesso di amore e accudimento che diventa una sottile manipolazione volta all’inglobamento che recita: “Non puoi andare nel mondo, ti sono indispensabile, senza di me non sei capace, non ce la fai.”
Il rischio è di diventare un adulto mai del tutto cresciuto, con istanze di dipendenza e passività, eternamente in attesa che qualcun altro si occupi di se stesso. La sfida con Marco è stata ad un certo punto cambiare registro e fare quello che suo padre non aveva fatto per lui. Sostenerlo a crescere. Fargli arrivare il mio “Tu puoi!”, il mio tifo, la mia spinta, il sostegno. Marco ha iniziato a sentirsi arrabbiato con me. Non ero più solo madre simbolica accogliente e idealizzata in cui avrebbe desiderato perdersi in una fusionalità senza fine ma ero anche padre. In quanto tale lo spronavo ad uscire fuori da lì, da quei luoghi interiori impantanati in una dimensione di invischiamento con la madre, dimensione tanto rassicurante quando asfissiante e paralizzante, a varcare la sua area di comfort, ad osare e correre il rischio di crescere, partorire se stesso ed incontrare il padre che non aveva mai avuto perché sempre assente per lavoro o emotivamente inesistente. E’ stato un passaggio delicato e faticoso in cui ho corso anche io dei rischi insieme a Marco. La nostra relazione avrebbe retto l’ondata dei suoi sentimenti negativi nei miei confronti? Sarebbe riuscito Marco ad attraversarli con il mio sostegno e il mio incoraggiamento senza che la paura di ‘distruggere’ la nostra relazione o di fuggire avrebbe preso il sopravvento? La delusione per la caduta di un’illusione fusionale ci avrebbe permesso di passare ad un nuovo livello più adulto di connessione?.
Ho sentito questo rischio come un passaggio obbligato per aiutare Marco a crescere e a non ripetere con me il copione materno che aveva così bene conosciuto. Ho sentito di dovermi imbattere nelle sue più tenaci resistenze attraversando la tempesta delle sue emozioni ambivalenti, il tumulto di qualcosa che scuote un equilibrio precedente per lasciare spazio al nuovo e ho sentito che se io fossi rimasta una presenza solida e sicura, anche nell’accoglimento dei suoi vissuti negativi verso di me, lui si sarebbe forse dato il permesso di navigare in queste acque agitate e sconosciute. E così fu.
Una volta riemersi da questo burrascoso momento terapeutico Marco inizia a tratti a sentirsi più vitale e meno paralizzato e a guardarsi con più lucidità, si impegna un po’ di più ad essere sveglio e presente a se stesso. Inizia a non delegare più a me in modo totale la sua guarigione, a non considerarla più un atto magico che non include una sua partecipazione attiva e che mi conferisce un irrealistico e onnipotente potere. Divento più umana ai suoi occhi. Grazie a tutto questo processo mi ridimensiona, collocandomi in una posizione di guida più reale ed inizia ad essere pronto ad una ricerca di sé più proattiva e coinvolta.
“Questa volta ho scoperto qualcosa di nuovo. Mi sono ascoltato e osservato. Mi sono reso conto che quando c’è qualcosa che mi crea disagio o non mi piace di me, al posto che guardarla e attraversarla, fuggo e mi isolo in un angolino triste e solitario di ritiro e chiusura. E allora sento quell’abbattimento e quel senso di paralisi che mi tolgono piacere e vitalità.”
“Che bella consapevolezza Marco, sento che inizi a ‘prenderti in mano’! Dimmi di più.”
“Sono stato invitato a fare da relatore ad un convegno. All’inizio mi sono sentito gratificato ed entusiasta ma poi ho iniziato a pensare al pubblico. In quella regione d’Italia sono tutti pretenziosi e precisini e insomma…ho iniziato a sentirmi depresso e paralizzato dopo tutti questi pensieri…potrebbero aspettarsi qualcosa di diverso da ciò che sono io e che potrò portare, vedermi come un sempliciotto, giudicarmi male.”
“E cosa potrebbe accadere se ti giudicassero male Marco?”, domando io.
“Ah niente!!!!” e scoppia a ridere fragorosamente.
“Mmm, sento che a livello razionale mi dici questo ma in realtà sembrerebbe che il giudizio che ti somministri e che ti dice che non sarai abbastanza ti toglie energia e ti sconforta profondamente”, dico io.
“E’ proprio così, sento che non vado mai bene abbastanza, in primis per me stesso”, dice Marco tornando serio.
“Proviamo ad esplorare l’origine di questo perfezionismo?”.
“Ci sto!”, ribatte subito Marco e lo sento desideroso di incontrarsi.
Come di consueto propongo prima un lavoro di radicamento corporeo che faciliti un contatto profondo con la sua interiorità, una maggiore consapevolezza con le sue sensazioni ed emozioni e che supporti il processo di emersione delle sue verità. E poi…
“Ti propongo di personificare la parte di te che si mette in cattedra e ti giudica. Prova a salire sulla poltroncina come fossi su un piedistallo, immagina di avere seduta di fronte la parte di te che e’ vittima di questo spietata critica e con il dito puntato contro di lui inizia a dar voce a questo grillo parlante”, suggerisco.
“Sei un’imbecille! Tirati fuori! Ma non ti vergogni, non ti vergogniiii, non fai mai le cose bene abbastanza. E poi non sai reagire. Ti deprimi. E dai su, forza, smettila di stare così, imbecilleeeee!!!”, incalza Marco alzando la voce che diventa cavernosa e cattedratica.
“Ok. Fai un respiro profondo e ora vai a sederti al posto del Marco vittima di questa sfilza di svalutazioni. Come ti stai sentendo lì?”
Noto che Marco è ripiegato su stesso, spento, abbattuto.
“Mi sento piccolo…piccolissimo, senza un briciolo di energia, mi sento triste e …penso che…che non è giusto che lui mi tratti così e…mi viene da piangere.”
“Si vedo Marco”, gli dico trasmettendogli vicinanza attraverso il tono della mia voce. “Se ora tu dovessi sostituire il Marco giudicante con qualcun’altro con cui ti sei sentito così, piccolo, triste, senza energia, abbattuto e schiaffeggiato dalla violenza del giudizio, comprare qualche immagine? Datti tempo.”
Ma la risposta di Marco arriva tempestiva.
“Mio padre, ho davanti mio padre”. Scoppia a piangere. “Ha uno sguardo di disapprovazione. O non c’è o se c’è mi critica e mi mette continuamente di fronte ad un modello di perfezione a cui aderire, tante aspettative, insomma non vado mai bene.”
“Sento il tuo dolore Marco, il dolore di quel bambino. Se si fosse sentito libero di parlare a quel papà, cosa gli avrebbe detto il Marco bambino? Continua a stare di fronte all’immagine di tuo padre e vedi se arriva spontaneamente qualche parola dal tuo interno”, gli propongo.
“Papà…papà…”, dice Marco tremando, “Mi vuoi bene papà…tu mi vuoi bene?”, le lacrime scendono copiose. Fa un paio di respiri profondi e prosegue. “Papà non è giusto, perché mi tratti così? Perchèèèè? Perchèèèè ???”. Il dolore si sposa con la rabbia e poi l’onda emotiva di riplaca.
“Se c’è ancora qualcosa che vorresti dirgli Marco questa è la tua occasione”.
“Papà, accettami per quello che sono, dimmi che vado bene così come sono”, il pianto che ora diventa a singhiozzi pare un’onda che attraversa tutto il corpo e che inizia a sciogliere alcune tensioni nel diaframma e nel petto, sede del cuore. Ammorbidisce facendolo fuoriuscire, un dolore antico e profondo e inizia a scalfire l’impalcatura di perfezionismo e auto-disapprovazione che si porta dietro.
“Che succede ora Marco. Come ti sta guardando tuo padre? Come lo visualizzi?”.
“Mi sorride”.
“Quali parole senti che arrivano da quel sorriso per te?”, gli chiedo.
“Scusa Marco, mi dispiace, io non immaginavo… non sapevo… non avrei mai voluto farti tanto male”.
“E come vorresti concludere questo incontro con lui ?”
“Ho voglia di abbracciarlo.”
“Inizia a muovere qualche passo in avanti per incontrarlo Marco”.
Marco stringe forte a sé un grande cuscino attraverso cui incontra il papà che porta dentro nel cuore (per altro suo padre non è più in vita) e piange ancora, questa volta in modo tenero e commosso. Un pianto di pace.
Marco riapre gli occhi e mi guarda come se fosse riemerso da un viaggio lungo in un posto molto lontano nel tempo.
“Marco”, gli dico io commossa sorridendo, “Ho bisogno di dirti una cosa. Vai proprio bene così come sei”.